Le cinque teorie di Darwin

 

 

DIANE RICHMOND

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 08 ottobre 2022.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]

 

1. Introduzione. Uno dei motivi di conflitto filosofico nel dibattito sull’evoluzionismo consiste nell’approccio che considera tutto il pensiero di Darwin come il blocco monolitico di un’ideologia, invece di fare riferimento in modo appropriato, specifico e ragionevole a ciascuna delle cinque teorie elaborate dal geniale biologo naturalista. Ernst Mayr osservava che gli interminabili dibattiti su questo argomento documentati da interi fascicoli della rivista Philosophy of Science dimostrano che l’elaborazione logica non è il modo migliore di risolvere i problemi di filosofia della scienza, e auspicava un approccio diretto ai fatti empiricamente dimostrati[1]. Tale approccio può evitare ciò che è accaduto molto spesso nel dibattito degli anni recenti: un’incertezza relativa a un problema minore viene considerata sufficiente dagli oppositori per respingere tutti i fatti incontrovertibili e le idee illuminanti e paradigmatiche del darwinismo.

In questo breve saggio, senza entrare nel dibattito sulle questioni controverse, si vuol fornire un supporto di conoscenza a coloro che, a vario titolo, discutono di darwinismo nella scienza, nella filosofia e nella fede, non avendo mai considerato l’indipendenza di ciascuna delle cinque tesi empiricamente supportate nella visione del fondatore dell’evoluzionismo in biologia.

In proposito, non è superfluo ricordare che l’antico scontro tra creazionisti ed evoluzionisti è stato risolto da credenti cristiani, descrivendo i meccanismi dell’evoluzione come il modo di operare della creazione stessa, precisando che il racconto del libro della Genesi costituisce un’analogia esemplare, e solo apparentemente fissa il tempo della creazione in una metaforica settimana divina, perché ogni dottrina delle tre fedi monoteiste considera la procreazione umana mediante l’accoppiamento una prosecuzione della creazione divina.

Ecco l’elenco delle cinque teorie: 1) l’evoluzione in quanto tale; 2) la teoria del progenitore ancestrale comune; 3) il gradualismo contrapposto alla tesi dei salti biologici; 4) la moltiplicazione delle specie; 5) la selezione naturale.

 

2. Evoluzione in quanto tale. Per i biologi dei nostri giorni, l’evoluzione non è più una teoria ma un fatto, come la rivoluzione della terra intorno al sole. I cambiamenti documentati dai reperti fossili in strati geologici precisamente datati (ad es. con 14C) costituiscono l’evidenza certa di un fatto, che corrisponde all’idea di Darwin e inficia definitivamente la visione di un mondo sostanzialmente costante e perpetuamente ciclico. L’evoluzione, infatti, ci mostra una realtà naturale in continuo divenire, solo in parte seguendo una direzione riconoscibile, ma sempre secondo un principio universale: gli organismi si trasformano nel tempo. Per questa ragione, la concezione evoluzionista è stata definita in passato “teoria della non costanza delle specie”.

La stratificazione cronologica dei fossili costituisce la base fattuale fondante le altre quattro teorie.

 

3. Teoria del progenitore comune. Darwin ebbe modo di osservare alle Galapagos tre nuove specie del tordo poliglotta o mimo poliglotta (secondo Linneo, 1758), in Italia detto anche tordo beffeggiatore per la sua capacità di imitare il canto, i versi e le voci più disparate modificando lievemente il tono come a farne la parodia. Le tre specie presentavano solo lievi tratti divergenti sulla base di un insieme di caratteri fondamentali comuni, che Darwin riportava a una specie più antica dello stesso uccello presente in Sud America: da questa osservazione venne l’ipotesi di un progenitore ancestrale comune a tutti i tordi poliglotti. L’idea del progenitore comune non era in realtà del tutto nuova in zoologia, infatti Buffon l’aveva considerata per asini e cavalli[2]; più in generale, numerosi autori predarwiniani la propongono per varietà di una stessa specie e per specie fenotipicamente molto simili. L’originalità consiste nell’assolutizzazione del concetto come paradigma della vita animale sulla terra.

Dal progenitore dei tordi, proseguendo le sue osservazioni, il fondatore dell’evoluzionismo giunse a supporre un’origine comune per tutte le specie. Ed è proprio questa intuizione la chiave di volta di quella visione, oggi patrimonio culturale universale, esposta in Origine delle specie (On The Origin of Species) e in Origine dell’uomo (The Descent of Man) e ben presto accettata con entusiasmo negli ambienti accademici di tutto il mondo. Probabilmente la fortuna di questa teoria si deve al suo enorme potere esplicativo che, riconducendo tutto ciò che nella storia naturale appariva arbitrario o casuale alle diramazioni di una discendenza, conferiva senso e ordine alla tassonomia, fornendo il primo modello razionale per la filogenesi. Gli archetipi di Owen e le similitudini dell’anatomia comparata potevano essere spiegati come eredità di un progenitore comune; l’intera gerarchia di Linneo divenne improvvisamente del tutto logica, in quanto ciascuno dei taxa superiori era costituito a sua volta dai discendenti di un taxon più remoto.

Mayr nota che, virtualmente, tutte le prove dell’evoluzione elencate da Darwin nell’Origine consistono in evidenze di una discendenza comune[3].

Il più popolare programma di ricerca nel campo delle scienze naturali dopo la pubblicazione dei saggi che hanno cambiato il modo di concepire lo studio degli organismi viventi, consisteva nel trovare gli ascendenti di tipi isolati o di tipi che apparivano sui generis, con tutta la gamma di metodi e dottrine che va dall’anatomia comparata alla paleontologia. Ben presto la ricerca del progenitore comune divenne anche un obiettivo dell’embriologia comparata, sebbene molti embriologi non dessero credito alla tesi secondo cui l’ontogenesi ricapitoli fedelmente la filogenesi. La prima traccia per l’applicazione del nuovo programma in questi studi fu rappresentata dalle similarità embriologiche obliterate negli adulti e, infatti, la chorda in tunicati e vertebrati fu spiegata con la teoria del progenitore comune.

La seconda teoria di Darwin si rivelò il motore più potente per condurre naturalisti e biologi a una visione evoluzionistica della natura. Ben presto divenne ipotesi di ricerca che piante e animali, tanto differenti fra loro, potessero derivare da un comune organismo unicellulare, come era stato previsto da Darwin: “… tutte le nostre piante e i nostri animali [sono derivati] in una qualche forma dal primo respiro della vita”[4].

Vi fu solo un’area in cui l’applicazione della teoria del progenitore comune incontrò una strenua resistenza, ovvero quella che riguardava la nostra specie: la maggioranza degli studiosi rifiutava l’inclusione degli esseri umani nell’albero filogenetico. Per la cultura vittoriana nessuna tesi era meno accettabile dell’idea che l’uomo derivasse dalla scimmia. E nei decenni seguenti non furono pochi i naturalisti e i biologi impegnati a sollevare dubbi sulle interpretazioni date ai reperti fossili e, quando si giunse alle determinazioni del cariotipo e ai saggi biochimici di molecole marker che dimostrarono la somiglianza cromosomica e molecolare tra l’uomo e le grandi scimmie africane, da alcuni furono messi in dubbio i criteri adottati.

Oggi che la paleoantropologia ci ha fornito una vasta genealogia di ominidi protoumani, in particolare tra le australopitecine, e che si è desunto che non discendiamo dalla scimmia (scimpanzé, gorilla, oranghi, ecc.) ma abbiamo avuto un antenato comune, non vi sono più reali oppositori in seno alla scienza nemmeno per l’applicazione alla nostra specie della seconda teoria di Darwin.

 

4. Gradualismo delle trasformazioni evolutive. La terza teoria di Darwin sostiene che le trasformazioni evoluzionistiche procedono sempre gradualmente e mai compiendo salti. Non si tratta del semplice seguire l’antica sentenza natura non facit saltus[5] ripresa da Leibniz in Nouveau Essais (1704) e, soprattutto, dal massimo tassonomista del XVIII secolo, Linneo, nella sua Philosophia botanica (1751), ma di un criterio assoluto di lenta e progressiva trasformazione evolutiva che nega l’essenzialismo.

La radice culturale essenzialista della maggior parte dei contemporanei di Darwin spiega la forte opposizione militante che incontrò questa teoria.

La comparsa di nuove specie documentata e ricostruita dai reperti fossili e dal confronto delle specie fossili con quelle moderne era interpretata dalla maggior parte dei naturalisti su base essenzialista come un salto. Darwin ragionava in questi termini: non vi sono evidenze di nuove specie maladattate che compaiono e subito si estinguono; se tutte le nuove specie che conosciamo sono bene adattate per la vita nel loro ambiente, le possibilità sono due: o c’è stato il diretto intervento del Creatore (salto creativo) oppure sfruttano un adattamento acquisito in precedenza in quanto sono il prodotto di piccoli e numerosi cambiamenti di specie filogeneticamente più antiche.

È interessante notare che, a parte gli strenui oppositori essenzialisti, la certezza darwiniana, che era quasi una fede incrollabile nel gradualismo, non albergava nemmeno nella mente dei suoi amici più intimi e fedeli collaboratori. Thomas Henry Huxley, tanto fedele nel sostenere le idee di Darwin da essere soprannominato Darwin’s bulldog, così gli scrive: “Ti sei caricato di una difficoltà non necessaria adottando il Natura non facit saltum senza riserve…”[6].

Ma il padre dell’evoluzionismo non era di questo avviso e, nonostante le questioni sollevate da Huxley, Galton, Kolliker e altri contemporanei, fu irremovibile nell’insistere sul gradualismo quale realtà imprescindibile.

Secondo Mayr, con l’eccezione di Lamark e Geoffroy, tutti i teorici che si erano occupati di cambiamenti nel mondo organico erano essenzialisti e avevano fatto ricorso alla saltazione[7].

In realtà, nessuno aveva difficoltà ad accettare l’idea che per piccole variazioni accumulate nel tempo si fossero generati zebre, asini e cavalli o, tra gli uccelli, piccioni aquile e civette; ma quasi nessuno poteva credere che si fosse arrivati gradualmente da un mollusco a una scimmia o da un serpente a un airone: dovevano esservi stati dei salti per lo sviluppo dello scheletro e il cambiamento di adattamento dall’acqua alla terra, nel primo caso, e per la comparsa delle ali nel secondo caso.

Perché Darwin fosse così fermamente convinto della realtà del gradualismo non è chiaro. Mayr sosteneva che la questione non era mai stata analizzata adeguatamente[8]. Molti autori si sono accontentati di dedurre che Darwin considerasse il principio dell’uniformismo di Lyell in geologia una regola generale in natura e lo avesse esteso al mondo organico come gradualismo. Altri hanno sottolineato che le sue conversazioni con allevatori che praticavano incroci lo avevano messo di fronte a grandi differenze emerse da piccoli cambiamenti; altri ancora hanno insistito sull’importanza delle osservazioni condotte alle Galapagos su tartarughe e tordi, quale fattore decisivo nel persuaderlo a sostenere la dottrina delle lievi variazioni.

La spiegazione fornita dallo stesso Darwin della sua fede nel gradualismo di legge nell’Origine: “Siccome la selezione naturale agisce esclusivamente accumulando lievi e susseguenti variazioni favorevoli, non può produrre grandi o improvvise modificazioni; essa può agire solo mediante brevissimi e lenti passi”[9]. Ma i filosofi della scienza la considerano tautologica: che la selezione operi “esclusivamente” attraverso lievi variazioni non era stato dimostrato, ma solo dedotto sulla base di un’intuizione gradualista.

Oggi è opinione condivisa che sia stato il pensiero popolazionistico, cioè il ragionare per popolazioni, che abbia rafforzato in Darwin la dottrina gradualista. Basta riflettere un istante per cogliere la questione principale con estrema chiarezza: le piccole variazioni si affermano perché migliorano un limitato aspetto dell’adattamento senza modificare la sua struttura generale, e una piccola variazione condivisa da tutti i membri di una vasta popolazione costituisce uno straordinario moltiplicatore di differenza. Se si ragiona per singoli individui è più probabile che appaia indispensabile immaginare un salto per la comparsa delle ali, dei polmoni o del bipedismo.

Si può anche non condividere questo punto di vista, ma un fatto è certo: nell’opera di Darwin pensiero popolazionistico e gradualismo si danno reciproco sostegno e rinforzo.

Storicamente i naturalisti sono stati i principali paladini dell’evoluzione graduale, perché la incontravano dappertutto in forma di variazione geografica. Poi i genetisti, dopo la scoperta della poligenia, cioè che geni diversi determinano lo stesso carattere, e del pleiotropismo, cioè che un singolo gene può determinare effetti fenotipici multipli, sono diventati i maggiori sostenitori del gradualismo.

Definire oggi il gradualismo come evoluzione popolazionistica, seguendo Mayr[10], vuol dire cogliere la principale applicazione del principio darwiniano di gradualità.

 

5. La moltiplicazione delle specie. La quarta teoria di Darwin postula che l’enorme diversità delle specie animali e vegetali presenti sulla terra non si spiega sulla base del semplice adattamento differenziale sostenuto da Lamark (Philosophie Zoologique, 1809), ma si deve alla moltiplicazione delle specie. L’esistenza della speciazione al giorno d’oggi è una nozione elementare, ma rimane una questione di estremo interesse perché, come vedremo più avanti, a 163 anni dalla pubblicazione dell’Origine vi sono almeno tre ragioni per cui questa teoria costituisce ancora un problema.

Si stima oggi che, con variazioni di calcolo dovute ai criteri adottati, vi siano circa dieci milioni di specie animali e circa due milioni di specie vegetali. Al tempo di Darwin non si era giunti ancora a questi numeri per le specie conosciute, ma la classificazione di Linneo era già così vasta e complessa da scoraggiare i tentativi di memorizzazione e presentare una realtà che poneva molti interrogativi. Il pensiero predarwiniano prevalente tendeva a considerare fisso il numero delle specie e ad attribuire l’apparente diversità all’adattamento locale. Lyell, nella sua visione statica del mondo, sosteneva che il numero delle specie fosse costante e, tutt’al più, poteva accadere che si originasse una nuova specie per rimpiazzarne una estinta. In nessuno degli autori di quel periodo è presente l’idea della divisione di una specie in varie “specie figlie”.

Uno dei motivi di questa concezione era la netta discontinuità tra specie che tanto aveva impressionato John Ray e Carlo Linneo (Carl Nilsson Linnaeus), il medico e naturalista svedese autore della monumentale classificazione binomiale che si adopera ancora oggi; ma, grazie a un nuovo approccio, ovvero quello dei “naturalisti viaggiatori”, fu chiaro che la netta discontinuità era solo un’apparenza dovuta alla circoscritta esperienza dei “naturalisti locali” come Ray e Linneo.

Christian Leopold von Buch andò alle Isole Canarie, Moritz Wagner in Nord Africa, Charles Darwin alle Galapagos, Alfred Russel Wallace in Amazzonia e all’arcipelago della Malesia, conducendo studi che consentirono di aggiungere alle nozioni derivate dallo studio delle linee evolutive animali (criterio verticale) le informazioni ricavate dalla dimensione geografica di distribuzione delle specie (criterio orizzontale). Queste osservazioni sul campo a vasto raggio fecero ben presto crollare la nozione di netta discontinuità tra le specie, grazie alla scoperta di specie geograficamente rappresentative o allopatriche, di specie in fase incipiente e di tutti gli stadi intermedi possibili tra una specie e l’altra. Fu allora evidente che l’idea tradizionale di “trasformazione di una linea filetica nella dimensione del tempo” non era in grado di spiegare la molteplicità delle specie.

Tali nuove acquisizioni, tuttavia, non erano ancora sufficienti per lo sviluppo di una nuova concezione. Per concepire la speciazione fu necessario definire il concetto di specie biologica, come hanno osservato Jordan, Poulton, Stresemann e Mayr. Solo allora fu chiaro che la questione nodale era costituita dall’acquisizione dell’isolamento riproduttivo fra specie.

Come avviene, allora, la moltiplicazione delle specie? Si dice che Darwin abbia “combattuto col problema della moltiplicazione delle specie per tutta la sua vita”[11].

Le osservazioni del naturalismo geografico avevano supportato la speciazione allopatrica, cioè il formarsi di nuove specie da popolazioni geograficamente isolate, ma Darwin ipotizzò e cercò di dimostrare che le nuove specie si potevano formare anche in seno a popolazioni non isolate e residenti nello stesso luogo di quelle appartenenti alla specie originaria: speciazione simpatrica. La nozione chiave introdotta da Darwin per spiegare come si originino nuove specie dal ceppo parentale prende il nome di principio di divergenza.

Secondo il principio di divergenza le varietà che maggiormente divergono dal tipo parentale tendono ad essere selezionate perché più specificamente adatte. Proprio il valore positivo per la selezione della divergenza delle varietà sarebbe all’origine delle nuove specie prodotte nella sede del ceppo parentale, ossia generate per speciazione simpatrica.

In realtà, l’applicazione del principio di divergenza al processo della speciazione è un meccanismo complesso analizzato da Ernst Mayr in studi importanti, ai quali si rimanda il lettore che abbia esigenze specialistiche[12].

All’epoca in cui Darwin propose la speciazione simpatrica basata sul principio di divergenza, e in particolare dal 1860 in avanti, vi fu un’accettazione generale e spesso entusiastica, al punto che questo modo di origine di nuove specie ebbe pari dignità scientifica della speciazione allopatrica dovuta all’isolamento geografico delle varietà o sottospecie.

Dal 1870 agli anni Quaranta del Novecento, la speciazione simpatrica secondo Darwin è stata il più noto meccanismo di speciazione nella cultura di tutto il mondo, anche se vari autori fra cui spiccano numerosi ornitologi, continuavano a sostenere la speciazione da segregazione territoriale delle varietà quale unica modalità. Per contro, molti fra entomologi e botanici sostenevano che la speciazione per divergenza fosse la più comune e la più importante nel loro campo di osservazione.

È curioso, in proposito, il caso dei paleontologi: per lunghissimo tempo ignorarono il problema della moltiplicazione delle specie, come si rileva anche dall’assenza di menzione in tutta l’opera di Simpson, ma quando finalmente decisero di includere la questione nella struttura teorica della loro disciplina, assunsero piuttosto passivamente le conclusioni della ricerca basata su organismi viventi[13].

Come annunciato all’inizio di questo paragrafo, vi sono tre ragioni per cui la moltiplicazione delle specie è ancora un problema in epoca contemporanea:

1)      gli evoluzionisti analizzano i risultati degli eventi evolutivi del passato, così sono obbligati a giungere alle loro conclusioni mediante un processo logico di inferenza. In tal modo vanno incontro a problemi di ricostruzione delle sequenze di eventi come accade talvolta nella ricerca storica;

2)      nonostante gli straordinari progressi della genetica, si sa ancora poco o nulla dei processi genetici della speciazione;

3)      è evidente che meccanismi genetici differenti sono implicati nella speciazione di tipi diversi di organismi e in circostanze diverse.

 

6. La selezione naturale. La quinta teoria di Darwin è la più importante, la più ardita e la più pervasiva di tutta la dottrina evoluzionistica, perché spiega come avvengono i cambiamenti nelle specie, come si affermano e come modellano l’adattamento all’ambiente. La selezione naturale, scoperta e concepita come meccanismo dell’evoluzione anche da Alfred Russel Wallace indipendentemente da Darwin, postula dunque che la natura seleziona in base al possesso da parte degli individui di caratteristiche più vantaggiose nella lotta per la vita, la struggle for life: gli animali più dotati in termini di caratteri, tratti e risorse hanno una più elevata probabilità di sopravvivenza e di riproduzione. Questo concetto è stato a volte semplificato nelle espressioni “sopravvivenza del più adatto”, con implicito riferimento all’adattamento ambientale, e “riproduzione del più adatto”, anche se ben presto si è sviluppata una branca specializzata di studio che prende il nome di selezione sessuale, e trae origine dalle osservazioni di Darwin sui criteri delle femmine nella scelta dei maschi per l’accoppiamento, fatta salva la candidatura dei vincitori delle lotte fra maschi in competizione. Oggi, fin dai banchi di scuola, siamo abituati a pensare alla selezione naturale in termini genetici, cioè come riproduzione differenziale dei genotipi di una popolazione, ma dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione per ritornare al registro darwiniano dell’osservazione degli animali e figurarci l’osservazione di esemplari in grado di sopravvivere più di altri in condizioni di scarsità di cibo o riprodursi di più nelle stesse condizioni[14].

Come si è detto, Alfred Russel Wallace era arrivato indipendentemente a riconoscere e descrivere questo processo, ma possiamo chiederci qual è la differenza tra i due naturalisti nel modo di intenderlo e perché oggi se ne parla quasi esclusivamente come scoperta darwiniana?

Per Wallace la selezione naturale è un meccanismo che assicura la sopravvivenza delle specie e interviene nella loro moltiplicazione. Per Darwin è la chiave di volta per fondare la nuova biologia, eliminando l’essenzialismo, la teleologia e ogni ricorso alla metafisica ancora presente nelle scienze della natura quale eredità del pensiero cristiano: la selezione naturale è l’architrave che regge l’edificio di un pensiero meccanicistico che spiega tutta la realtà di natura senza ricorrere a un Dio creatore. Darwin intendeva sostituire ogni ricorso al divino e al pensiero religioso con la scienza secolare[15]. Le ragioni di questo programma sono state individuate da Mayr e altri nello status delle scienze del XIX secolo.

Come al tempo di Galileo Galilei, le scienze si studiavano tutte presso le facoltà mediche universitarie e, fra le discipline a indirizzo teorico-sperimentale, la fisica era considerata la regina per il rigore dei procedimenti che avevano escluso ogni ricorso alla metafisica e a concezioni sviluppate in ambito religioso. Darwin intende conferire pari dignità alle scienze della vita, eliminando il riferimento alla creazione e a un fine del creato per spiegare l’esistenza degli organismi viventi e i fenomeni che li riguardano.

A questo proposito Mayr scrive: “Non vi è stato nulla di simile nella letteratura filosofica dai Presocratici a Descartes, Leibniz, Hume o Kant. Ha sostituito la teleologia in natura con una spiegazione essenzialmente meccanica”[16].

È difficile trovare fra i saggi scientifici un libro che possa aver avuto un impatto sul pensiero collettivo paragonabile all’Origine (1859), e una nozione scientifica che si sia così capillarmente diffusa come quella di selezione naturale.

Per Darwin e i suoi seguaci, la selezione naturale si articola in due fasi: 1) produzione di variazioni; 2) scelta tra le varianti mediante selezione ed eliminazione.

Ma la selezione naturale darwiniana non si limita a questo meccanismo in due tempi, e presuppone vari processi, quali quelli descritti dalle seguenti tesi:

1)      la teoria dell’esistenza di un surplus riproduttivo (superfecondità);

2)      la teoria dell’ereditabilità delle differenze individuali;

3)      la discrezione dei determinanti di eredità.

Questi ed altri fenomeni biologici erano implicitamente parte del modello di selezione accuratamente descritto da Darwin.

Quali furono le reazioni del mondo scientifico e culturale a questa teoria?

Per rispondere a questo interrogativo, attingo alla copiosa documentazione storica raccolta da Mayr che, nel 2004, smentisce la tesi di alcuni sociologi contemporanei, secondo cui la selezione naturale darwiniana interpreta lo spirito del tempo, lo Zeitgeist della Gran Bretagna di inizio XIX secolo, con la visione del mondo originata dalla rivoluzione industriale e il pensiero di Adam Smith.

Se così fosse – osserva Mayr – la teoria della selezione naturale sarebbe stata recepita da tutti, invece – e così risponde alla domanda posta più sopra – al contrario dell’accoglimento entusiastico della teoria del progenitore comune, quella della selezione naturale incontra un rifiuto pressoché universale[17].

Nel 1860 tra i naturalisti solo Wallace, Bates, Hooker e Fritz Muller sembrarono abbracciare il selezionismo mentre tutti gli altri, Lyell in testa, lo rigettarono. Anche il fedele Huxley, il “cane da guardia” delle idee di Darwin che in pubblico difende la selezione, in privato esprime dubbi e sembra non credere affatto al ruolo di questo meccanismo, secondo Poulton (1896) e Kotter (1985)[18].

Prima del 1900 nessun biologo sperimentale in Inghilterra o in qualsiasi altra parte del mondo ha adottato la teoria[19].

È curioso abbastanza rilevare che lo stesso Darwin non fu un selezionista integrale, in quanto continuò a credere nell’importanza degli effetti dell’uso e del disuso di un organo o di una funzione, e nella possibilità di influenze dirette dell’ambiente sugli organismi.

Il rifiuto di una “dottrina della selezione naturale” era drastico in coloro che erano stati allevati e istruiti secondo la concezione ideologica della teologia naturale. Queste persone trovavano inammissibile che, non solo si escludeva Dio dal mondo, ma supponendo che tutta la realtà animale e vegetale fosse il prodotto di un automatismo intrinseco, si cancellava col fine divino dell’Universo il senso umano della vita. Non è cosa da poco, come si comprende leggendo Sedgwick e von Baer[20], che articolavano le loro argomentazioni in modo dettagliato, coerente e persuasivo.

 

7. Considerazioni conclusive. Da quanto esposto, credo che risulti evidente l’importanza di distinguere le cinque teorie di Darwin, non solo in termini scientifici, ma anche in funzione di una riflessione filosofica, culturale o di pura logica del discorso.

Se l’evoluzione in quanto tale e l’esistenza di progenitori comuni non hanno incontrato significative obiezioni di esperienza, di ragione o di principio, le altre tre, e specialmente la teoria della selezione naturale, hanno sollevato ogni sorta di dubbio, fino al drastico rifiuto dell’idea che tutto il mondo naturale fosse il prodotto dell’affermazione di individui, popolazioni e specie più adatte.

Con la sintesi evoluzionistica si è avuta una generale accettazione nel mondo scientifico della selezione naturale, ma il dibattito è continuato fra gli evoluzionisti sulla portata del suo impiego. Nel Novecento, infatti, si è avuta quasi un’identificazione tra evoluzione e selezione. Già nel 1979 Gould e Lewontin si posero il problema dei limiti nell’adozione di un paradigma “adattamentista” assoluto, ossia se fosse corretto studiare i caratteri degli organismi solo in funzione del loro valore di adattamento[21].

Il modo in cui il paradigma evoluzionista selezionista è perfettamente integrato nella genetica contemporanea, costituendo il presupposto teorico della maggior parte delle prassi, è sotto gli occhi di tutti, così come è evidente anche a un profano l’utilità e l’efficacia della sua ratio. È comprensibile che oggi la maggioranza dei biologi ricercatori non particolarmente interessati ad argomenti di filosofia della scienza considerino, in generale, le tesi evoluzioniste come teoremi e corollari che non hanno più bisogno di dimostrazione e semplicemente si applicano nel lavoro quotidiano. Tanto più che anche fra gli studiosi di storia e filosofia della scienza prevalgono in numero coloro che considerano la “questione evoluzionista” un problema definitivamente consegnato al passato, e sembrano essere interessati solo alla giusta attribuzione dei meriti delle scoperte darwiniane.

In proposito, Ian Hesketh ha recentemente attratto l’attenzione sul periodo trascorso da Darwin in Australia. A dispetto del ruolo a lungo reso mitico delle osservazioni alle Isole Galapagos – osserva Hesket – oggi è emerso che i rilievi e le connessioni che Darwin ebbe modo di fare sugli animali di regioni quali New South Wales, Tasmania e King George Sound in terra oceanica furono non meno importanti. Alcuni autori, in prevalenza australiani, conservando una visione romantica ed eroica della ricerca, suggeriscono che la “rivelazione evoluzionista” Darwin l’abbia ricevuta alle Blue Mountains e non alle Galapagos[22].

Non si può negare che Darwin abbia realizzato il sogno di ogni bambino attratto dalla conoscenza del mondo animale: attraverso viaggi avventurosi alla ricerca del meraviglioso e del nuovo nelle innumerevoli specie sconosciute, scoprire il segreto delle origini di ogni essere vivente. Agli occhi di noi adulti, il padre dell’evoluzionismo non ha semplicemente compreso ciò che ha visto, ma ha creato degli strumenti concettuali di interpretazione di alcuni fatti della realtà biologica: ciascuno di questi strumenti, come ogni realizzazione umana, presenta vantaggi e svantaggi, limiti e difetti, che possono essere realmente analizzati e valutati solo conoscendo e distinguendo ciascuno strumento o teoria da tutti gli altri.

Concludendo questo scritto, che si spera possa essere utile a tutti i non esperti di questa materia per discutere delle idee di Darwin con maggiore cognizione di causa, desidero rivolgere un pensiero grato alla memoria di Ernst Mayr, che ci ha insegnato come la scienza muoia nella difesa preconcetta delle idee e viva nella purezza e semplicità del suo paradigma essenziale: osservare per conoscere, ragionare per comprendere.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Diane Richmond

BM&L-08 ottobre 2022

www.brainmindlife.org

 

 

 

________________________________________________________________________________

 

La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 



[1] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, p. IX (Preface), Cambridge University Press, Cambridge 2004.

[2] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., p. 101.

[3] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., idem.

[4] Charles Darwin in Charles Darwin’s Natural Selection (R. C. Stauffer ed.), p. 248, Cambridge University Press, Cambridge 1975 [traduzione dell’autrice].

[5] Il motto in Inghilterra era stato trasmesso al singolare, come si vedrà più avanti, e dunque con l’accusativo saltum (salto), mentre in origine era saltus, accusativo plurale di quarta declinazione: salti.

[6] Francis Darwin, The Life and Letters of Charles Darwin, Including an Autobiographical Chapter, 2 vols., 2, p. 27, Appleton, New York 1887.

[7] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., pp. 103-104.

[8] Cfr. Ernst Mayr, op. cit., p. 104.

[9] Charles Darwin, On the Origin of Species by the Means of Natural Selection or the Preservation of the Favored Races in the Struggle for Life, p. 471, [traduzione dell’autrice] (Facsimile of The First Edition, by John Murray, London 1859), Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts (USA), 1964.

[10] Cfr. Ernst Mayr, op. cit., p. 105.

[11] Ernst Mayr, op. cit., p. 106 [traduzione dell’autrice].

[12] Ernst Mayr, Darwin’s principle of divergence. Journal of the History of Biology 25: 343-359, 1992.

[13] Cfr. Eldredge N. & Gould S. J., Punctuated equilibria: an alternative to phyletic gradualism. In Models in Paleobiology (Schopf ed.), pp. 82-115, Freeman, San Francisco 1972.

[14] La mancata conoscenza da parte di Darwin delle nuove acquisizioni nel campo della genetica ha ritardato di molto la nascita dello studio molecolare dell’ereditarietà secondo i principi evoluzionistici. Il nostro presidente cita sempre questo fatto storico: l’abate Gregorio Mendel, dopo aver scoperto le leggi dell’ereditarietà che oggi conosciamo come “leggi di Mendel” scrisse un saggio in cui raccolse i risultati dei suoi esperimenti ed espose le regole che ne aveva ricavato; poi inviò copie di questo saggio ai più eminenti naturalisti del tempo, incluso Darwin. Dopo la morte di Charles Darwin, su uno scaffale della biblioteca del suo studio è stata trovata una copia intonsa, con le pagine ripiegate non ancora tagliate, come uscivano all’epoca i libri dalle stamperie, lasciando allo sfogliacarte del lettore il compito di separare le pagine. Darwin non aveva mai letto il libro di Mendel. Si disse che ciò era accaduto perché il saggio era scritto in tedesco.

[15] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., pp. 84, 85, 86.

[16] Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., p. 109.

[17] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., p. 110.

[18] Cfr. E. B. Poulton, Charles Darwin and the Theory of Natural Selection. Cassell, London 1896; Kotter M. J., Charles Darwin and Alfred Russel Wallace. Two decades of debate over natural selection. In The Darwinian Heritage, D. Kohn (ed.), pp. 367-432. Princeton University Press, Princeton 1985.

[19] Weismann, osserva Mayr, era fondamentalmente un naturalista.

[20] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., pp. 110-111.

[21] Gould S. J. & Lewontin R. C., The spandrels of San Marco and the Panglossian paradigm: a critique of the adaptationist programme. Proceedings of the Royal Society of London, Series B, 205: 581-589, 1979.

[22] Hesket Ian, Narrative of Charles Darwin Down Under. Studies in History and Philosophy of Science 88: 301-311, 2021.