Le cinque
teorie di Darwin
DIANE RICHMOND
NOTE E
NOTIZIE - Anno XIX – 08 ottobre 2022.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]
1. Introduzione. Uno dei motivi di conflitto filosofico nel
dibattito sull’evoluzionismo consiste nell’approccio che considera tutto il
pensiero di Darwin come il blocco monolitico di un’ideologia, invece di fare
riferimento in modo appropriato, specifico e ragionevole a ciascuna delle cinque
teorie elaborate dal geniale biologo naturalista. Ernst Mayr osservava che gli
interminabili dibattiti su questo argomento documentati da interi fascicoli
della rivista Philosophy of Science dimostrano che l’elaborazione logica
non è il modo migliore di risolvere i problemi di filosofia della scienza, e
auspicava un approccio diretto ai fatti empiricamente dimostrati[1].
Tale approccio può evitare ciò che è accaduto molto spesso nel dibattito degli
anni recenti: un’incertezza relativa a un problema minore viene considerata
sufficiente dagli oppositori per respingere tutti i fatti incontrovertibili e
le idee illuminanti e paradigmatiche del darwinismo.
In questo
breve saggio, senza entrare nel dibattito sulle questioni controverse, si vuol
fornire un supporto di conoscenza a coloro che, a vario titolo, discutono di
darwinismo nella scienza, nella filosofia e nella fede, non avendo mai
considerato l’indipendenza di ciascuna delle cinque tesi empiricamente
supportate nella visione del fondatore dell’evoluzionismo in biologia.
In proposito,
non è superfluo ricordare che l’antico scontro tra creazionisti ed evoluzionisti
è stato risolto da credenti cristiani, descrivendo i meccanismi dell’evoluzione
come il modo di operare della creazione stessa, precisando che il racconto del
libro della Genesi costituisce un’analogia esemplare, e solo
apparentemente fissa il tempo della creazione in una metaforica settimana
divina, perché ogni dottrina delle tre fedi monoteiste considera la
procreazione umana mediante l’accoppiamento una prosecuzione della creazione
divina.
Ecco l’elenco
delle cinque teorie: 1) l’evoluzione in quanto tale; 2) la teoria del
progenitore ancestrale comune; 3) il gradualismo contrapposto alla tesi dei
salti biologici; 4) la moltiplicazione delle specie; 5) la selezione naturale.
2. Evoluzione in quanto tale. Per i biologi dei nostri giorni, l’evoluzione non è
più una teoria ma un fatto, come la rivoluzione della terra intorno al sole. I
cambiamenti documentati dai reperti fossili in strati geologici precisamente
datati (ad es. con 14C) costituiscono l’evidenza certa di un fatto,
che corrisponde all’idea di Darwin e inficia definitivamente la visione di un
mondo sostanzialmente costante e perpetuamente ciclico. L’evoluzione, infatti,
ci mostra una realtà naturale in continuo divenire, solo in parte seguendo una
direzione riconoscibile, ma sempre secondo un principio universale: gli organismi
si trasformano nel tempo. Per questa ragione, la concezione evoluzionista è
stata definita in passato “teoria della non costanza delle specie”.
La
stratificazione cronologica dei fossili costituisce la base fattuale fondante
le altre quattro teorie.
3. Teoria del progenitore comune. Darwin ebbe modo di osservare alle Galapagos tre
nuove specie del tordo poliglotta o mimo poliglotta (secondo
Linneo, 1758), in Italia detto anche tordo beffeggiatore per la sua
capacità di imitare il canto, i versi e le voci più disparate modificando
lievemente il tono come a farne la parodia. Le tre specie presentavano solo
lievi tratti divergenti sulla base di un insieme di caratteri fondamentali
comuni, che Darwin riportava a una specie più antica dello stesso uccello
presente in Sud America: da questa osservazione venne l’ipotesi di un
progenitore ancestrale comune a tutti i tordi poliglotti. L’idea del
progenitore comune non era in realtà del tutto nuova in zoologia, infatti Buffon
l’aveva considerata per asini e cavalli[2];
più in generale, numerosi autori predarwiniani la propongono per varietà di una
stessa specie e per specie fenotipicamente molto simili. L’originalità consiste
nell’assolutizzazione del concetto come paradigma della vita animale sulla
terra.
Dal
progenitore dei tordi, proseguendo le sue osservazioni, il fondatore dell’evoluzionismo
giunse a supporre un’origine comune per tutte le specie. Ed è proprio questa
intuizione la chiave di volta di quella visione, oggi patrimonio culturale universale,
esposta in Origine delle specie (On The Origin of Species) e in Origine
dell’uomo (The Descent of Man) e ben presto accettata con entusiasmo
negli ambienti accademici di tutto il mondo. Probabilmente la fortuna di questa
teoria si deve al suo enorme potere esplicativo che, riconducendo tutto ciò che
nella storia naturale appariva arbitrario o casuale alle diramazioni di una
discendenza, conferiva senso e ordine alla tassonomia, fornendo il primo
modello razionale per la filogenesi. Gli archetipi di Owen e le similitudini
dell’anatomia comparata potevano essere spiegati come eredità di un progenitore
comune; l’intera gerarchia di Linneo divenne improvvisamente del tutto logica,
in quanto ciascuno dei taxa superiori era costituito a sua volta dai discendenti
di un taxon più remoto.
Mayr nota che,
virtualmente, tutte le prove dell’evoluzione elencate da Darwin nell’Origine
consistono in evidenze di una discendenza comune[3].
Il più
popolare programma di ricerca nel campo delle scienze naturali dopo la pubblicazione
dei saggi che hanno cambiato il modo di concepire lo studio degli organismi
viventi, consisteva nel trovare gli ascendenti di tipi isolati o di tipi che
apparivano sui generis, con tutta la gamma di metodi e dottrine che va dall’anatomia
comparata alla paleontologia. Ben presto la ricerca del progenitore comune
divenne anche un obiettivo dell’embriologia comparata, sebbene molti embriologi
non dessero credito alla tesi secondo cui l’ontogenesi ricapitoli fedelmente la
filogenesi. La prima traccia per l’applicazione del nuovo programma in questi
studi fu rappresentata dalle similarità embriologiche obliterate negli adulti
e, infatti, la chorda in tunicati e vertebrati fu spiegata con la teoria
del progenitore comune.
La seconda
teoria di Darwin si rivelò il motore più potente per condurre naturalisti e
biologi a una visione evoluzionistica della natura. Ben presto divenne ipotesi
di ricerca che piante e animali, tanto differenti fra loro, potessero derivare
da un comune organismo unicellulare, come era stato previsto da Darwin: “…
tutte le nostre piante e i nostri animali [sono derivati] in una qualche forma
dal primo respiro della vita”[4].
Vi fu solo un’area
in cui l’applicazione della teoria del progenitore comune incontrò una strenua
resistenza, ovvero quella che riguardava la nostra specie: la maggioranza degli
studiosi rifiutava l’inclusione degli esseri umani nell’albero filogenetico.
Per la cultura vittoriana nessuna tesi era meno accettabile dell’idea che l’uomo
derivasse dalla scimmia. E nei decenni seguenti non furono pochi i naturalisti
e i biologi impegnati a sollevare dubbi sulle interpretazioni date ai reperti
fossili e, quando si giunse alle determinazioni del cariotipo e ai saggi
biochimici di molecole marker che dimostrarono la somiglianza
cromosomica e molecolare tra l’uomo e le grandi scimmie africane, da alcuni
furono messi in dubbio i criteri adottati.
Oggi che la
paleoantropologia ci ha fornito una vasta genealogia di ominidi protoumani, in
particolare tra le australopitecine, e che si è desunto che non discendiamo
dalla scimmia (scimpanzé, gorilla, oranghi, ecc.) ma abbiamo avuto un antenato
comune, non vi sono più reali oppositori in seno alla scienza nemmeno per l’applicazione
alla nostra specie della seconda teoria di Darwin.
4. Gradualismo delle trasformazioni
evolutive. La terza teoria di
Darwin sostiene che le trasformazioni evoluzionistiche procedono sempre
gradualmente e mai compiendo salti. Non si tratta del semplice seguire l’antica
sentenza natura non facit saltus[5]
ripresa da Leibniz in Nouveau Essais (1704) e, soprattutto, dal massimo
tassonomista del XVIII secolo, Linneo, nella sua Philosophia botanica (1751),
ma di un criterio assoluto di lenta e progressiva trasformazione evolutiva
che nega l’essenzialismo.
La radice culturale
essenzialista della maggior parte dei contemporanei di Darwin spiega la
forte opposizione militante che incontrò questa teoria.
La comparsa di
nuove specie documentata e ricostruita dai reperti fossili e dal confronto
delle specie fossili con quelle moderne era interpretata dalla maggior parte
dei naturalisti su base essenzialista come un salto. Darwin ragionava in
questi termini: non vi sono evidenze di nuove specie maladattate che compaiono
e subito si estinguono; se tutte le nuove specie che conosciamo sono bene
adattate per la vita nel loro ambiente, le possibilità sono due: o c’è stato il
diretto intervento del Creatore (salto creativo) oppure sfruttano un
adattamento acquisito in precedenza in quanto sono il prodotto di piccoli e
numerosi cambiamenti di specie filogeneticamente più antiche.
È interessante
notare che, a parte gli strenui oppositori essenzialisti, la certezza
darwiniana, che era quasi una fede incrollabile nel gradualismo, non albergava
nemmeno nella mente dei suoi amici più intimi e fedeli collaboratori. Thomas
Henry Huxley, tanto fedele nel sostenere le idee di Darwin da essere
soprannominato Darwin’s bulldog, così gli scrive: “Ti sei caricato di una
difficoltà non necessaria adottando il Natura non facit saltum senza
riserve…”[6].
Ma il padre
dell’evoluzionismo non era di questo avviso e, nonostante le questioni
sollevate da Huxley, Galton, Kolliker e altri contemporanei, fu irremovibile
nell’insistere sul gradualismo quale realtà imprescindibile.
Secondo Mayr,
con l’eccezione di Lamark e Geoffroy, tutti i teorici che si erano occupati di
cambiamenti nel mondo organico erano essenzialisti e avevano fatto ricorso alla
saltazione[7].
In realtà,
nessuno aveva difficoltà ad accettare l’idea che per piccole variazioni
accumulate nel tempo si fossero generati zebre, asini e cavalli o, tra gli uccelli,
piccioni aquile e civette; ma quasi nessuno poteva credere che si fosse
arrivati gradualmente da un mollusco a una scimmia o da un serpente a un airone:
dovevano esservi stati dei salti per lo sviluppo dello scheletro e il
cambiamento di adattamento dall’acqua alla terra, nel primo caso, e per la
comparsa delle ali nel secondo caso.
Perché Darwin
fosse così fermamente convinto della realtà del gradualismo non è chiaro. Mayr
sosteneva che la questione non era mai stata analizzata adeguatamente[8].
Molti autori si sono accontentati di dedurre che Darwin considerasse il
principio dell’uniformismo di Lyell in geologia una regola generale in
natura e lo avesse esteso al mondo organico come gradualismo. Altri hanno
sottolineato che le sue conversazioni con allevatori che praticavano incroci lo
avevano messo di fronte a grandi differenze emerse da piccoli cambiamenti; altri
ancora hanno insistito sull’importanza delle osservazioni condotte alle Galapagos
su tartarughe e tordi, quale fattore decisivo nel persuaderlo a sostenere la dottrina
delle lievi variazioni.
La spiegazione
fornita dallo stesso Darwin della sua fede nel gradualismo di legge nell’Origine:
“Siccome la selezione naturale agisce esclusivamente accumulando lievi e
susseguenti variazioni favorevoli, non può produrre grandi o improvvise
modificazioni; essa può agire solo mediante brevissimi e lenti passi”[9].
Ma i filosofi della scienza la considerano tautologica: che la selezione operi “esclusivamente”
attraverso lievi variazioni non era stato dimostrato, ma solo dedotto sulla
base di un’intuizione gradualista.
Oggi è
opinione condivisa che sia stato il pensiero popolazionistico, cioè il
ragionare per popolazioni, che abbia rafforzato in Darwin la dottrina
gradualista. Basta riflettere un istante per cogliere la questione principale con
estrema chiarezza: le piccole variazioni si affermano perché migliorano un limitato
aspetto dell’adattamento senza modificare la sua struttura generale, e una piccola
variazione condivisa da tutti i membri di una vasta popolazione costituisce uno
straordinario moltiplicatore di differenza. Se si ragiona per singoli individui
è più probabile che appaia indispensabile immaginare un salto per la comparsa
delle ali, dei polmoni o del bipedismo.
Si può anche
non condividere questo punto di vista, ma un fatto è certo: nell’opera di
Darwin pensiero popolazionistico e gradualismo si danno reciproco sostegno e
rinforzo.
Storicamente i
naturalisti sono stati i principali paladini dell’evoluzione graduale, perché
la incontravano dappertutto in forma di variazione geografica. Poi i genetisti,
dopo la scoperta della poligenia, cioè che geni diversi determinano lo
stesso carattere, e del pleiotropismo, cioè che un singolo gene può
determinare effetti fenotipici multipli, sono diventati i maggiori sostenitori
del gradualismo.
Definire oggi
il gradualismo come evoluzione popolazionistica, seguendo Mayr[10],
vuol dire cogliere la principale applicazione del principio darwiniano di gradualità.
5. La moltiplicazione delle specie. La quarta teoria di Darwin postula che l’enorme
diversità delle specie animali e vegetali presenti sulla terra non si spiega
sulla base del semplice adattamento differenziale sostenuto da Lamark (Philosophie
Zoologique, 1809), ma si deve alla moltiplicazione delle specie. L’esistenza
della speciazione al giorno d’oggi è una nozione elementare, ma rimane una
questione di estremo interesse perché, come vedremo più avanti, a 163 anni
dalla pubblicazione dell’Origine vi sono almeno tre ragioni per cui
questa teoria costituisce ancora un problema.
Si stima oggi
che, con variazioni di calcolo dovute ai criteri adottati, vi siano circa dieci
milioni di specie animali e circa due milioni di specie vegetali. Al tempo di Darwin
non si era giunti ancora a questi numeri per le specie conosciute, ma la
classificazione di Linneo era già così vasta e complessa da scoraggiare i
tentativi di memorizzazione e presentare una realtà che poneva molti
interrogativi. Il pensiero predarwiniano prevalente tendeva a considerare fisso
il numero delle specie e ad attribuire l’apparente diversità all’adattamento
locale. Lyell, nella sua visione statica del mondo, sosteneva che il numero
delle specie fosse costante e, tutt’al più, poteva accadere che si originasse
una nuova specie per rimpiazzarne una estinta. In nessuno degli autori di quel
periodo è presente l’idea della divisione di una specie in varie “specie figlie”.
Uno dei motivi
di questa concezione era la netta discontinuità tra specie che tanto
aveva impressionato John Ray e Carlo Linneo (Carl Nilsson Linnaeus), il medico
e naturalista svedese autore della monumentale classificazione binomiale che si
adopera ancora oggi; ma, grazie a un nuovo approccio, ovvero quello dei “naturalisti
viaggiatori”, fu chiaro che la netta discontinuità era solo un’apparenza dovuta
alla circoscritta esperienza dei “naturalisti locali” come Ray e Linneo.
Christian
Leopold von Buch andò alle Isole Canarie, Moritz Wagner in Nord Africa, Charles
Darwin alle Galapagos, Alfred Russel Wallace in Amazzonia e all’arcipelago della
Malesia, conducendo studi che consentirono di aggiungere alle nozioni derivate
dallo studio delle linee evolutive animali (criterio verticale) le
informazioni ricavate dalla dimensione geografica di distribuzione delle specie
(criterio orizzontale). Queste osservazioni sul campo a vasto raggio
fecero ben presto crollare la nozione di netta discontinuità tra le
specie, grazie alla scoperta di specie geograficamente rappresentative o allopatriche,
di specie in fase incipiente e di tutti gli stadi intermedi
possibili tra una specie e l’altra. Fu allora evidente che l’idea tradizionale
di “trasformazione di una linea filetica nella dimensione del tempo” non era in
grado di spiegare la molteplicità delle specie.
Tali nuove acquisizioni,
tuttavia, non erano ancora sufficienti per lo sviluppo di una nuova concezione.
Per concepire la speciazione fu necessario definire il concetto di
specie biologica, come hanno osservato Jordan, Poulton, Stresemann e Mayr. Solo
allora fu chiaro che la questione nodale era costituita dall’acquisizione dell’isolamento
riproduttivo fra specie.
Come avviene,
allora, la moltiplicazione delle specie? Si dice che Darwin abbia “combattuto
col problema della moltiplicazione delle specie per tutta la sua vita”[11].
Le
osservazioni del naturalismo geografico avevano supportato la speciazione
allopatrica, cioè il formarsi di nuove specie da popolazioni
geograficamente isolate, ma Darwin ipotizzò e cercò di dimostrare che le nuove
specie si potevano formare anche in seno a popolazioni non isolate e residenti
nello stesso luogo di quelle appartenenti alla specie originaria: speciazione
simpatrica. La nozione chiave introdotta da Darwin per spiegare come si
originino nuove specie dal ceppo parentale prende il nome di principio di
divergenza.
Secondo il principio
di divergenza le varietà che maggiormente divergono dal tipo parentale
tendono ad essere selezionate perché più specificamente adatte. Proprio il
valore positivo per la selezione della divergenza delle varietà sarebbe all’origine
delle nuove specie prodotte nella sede del ceppo parentale, ossia generate per
speciazione simpatrica.
In realtà, l’applicazione
del principio di divergenza al processo della speciazione è un meccanismo complesso
analizzato da Ernst Mayr in studi importanti, ai quali si rimanda il lettore
che abbia esigenze specialistiche[12].
All’epoca in
cui Darwin propose la speciazione simpatrica basata sul principio di divergenza,
e in particolare dal 1860 in avanti, vi fu un’accettazione generale e spesso
entusiastica, al punto che questo modo di origine di nuove specie ebbe pari
dignità scientifica della speciazione allopatrica dovuta all’isolamento
geografico delle varietà o sottospecie.
Dal 1870 agli
anni Quaranta del Novecento, la speciazione simpatrica secondo Darwin è stata
il più noto meccanismo di speciazione nella cultura di tutto il mondo, anche se
vari autori fra cui spiccano numerosi ornitologi, continuavano a sostenere la
speciazione da segregazione territoriale delle varietà quale unica modalità.
Per contro, molti fra entomologi e botanici sostenevano che la speciazione per
divergenza fosse la più comune e la più importante nel loro campo di
osservazione.
È curioso, in
proposito, il caso dei paleontologi: per lunghissimo tempo ignorarono il
problema della moltiplicazione delle specie, come si rileva anche dall’assenza
di menzione in tutta l’opera di Simpson, ma quando finalmente decisero di
includere la questione nella struttura teorica della loro disciplina, assunsero
piuttosto passivamente le conclusioni della ricerca basata su organismi viventi[13].
Come
annunciato all’inizio di questo paragrafo, vi sono tre ragioni per cui la
moltiplicazione delle specie è ancora un problema in epoca contemporanea:
1) gli evoluzionisti analizzano i risultati degli
eventi evolutivi del passato, così sono obbligati a giungere alle loro
conclusioni mediante un processo logico di inferenza. In tal modo vanno
incontro a problemi di ricostruzione delle sequenze di eventi come accade talvolta
nella ricerca storica;
2) nonostante gli straordinari progressi della genetica,
si sa ancora poco o nulla dei processi genetici della speciazione;
3) è evidente che meccanismi genetici differenti sono
implicati nella speciazione di tipi diversi di organismi e in circostanze
diverse.
6. La selezione naturale. La quinta teoria di Darwin è la più importante, la
più ardita e la più pervasiva di tutta la dottrina evoluzionistica, perché
spiega come avvengono i cambiamenti nelle specie, come si affermano e come modellano
l’adattamento all’ambiente. La selezione naturale, scoperta e concepita come
meccanismo dell’evoluzione anche da Alfred Russel Wallace indipendentemente da
Darwin, postula dunque che la natura seleziona in base al possesso da parte
degli individui di caratteristiche più vantaggiose nella lotta per la vita, la struggle
for life: gli animali più dotati in termini di caratteri, tratti e risorse
hanno una più elevata probabilità di sopravvivenza e di riproduzione. Questo
concetto è stato a volte semplificato nelle espressioni “sopravvivenza del più
adatto”, con implicito riferimento all’adattamento ambientale, e “riproduzione
del più adatto”, anche se ben presto si è sviluppata una branca specializzata
di studio che prende il nome di selezione sessuale, e trae origine dalle
osservazioni di Darwin sui criteri delle femmine nella scelta dei maschi per l’accoppiamento,
fatta salva la candidatura dei vincitori delle lotte fra maschi in competizione.
Oggi, fin dai banchi di scuola, siamo abituati a pensare alla selezione
naturale in termini genetici, cioè come riproduzione differenziale dei
genotipi di una popolazione, ma dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione
per ritornare al registro darwiniano dell’osservazione degli animali e figurarci
l’osservazione di esemplari in grado di sopravvivere più di altri in condizioni
di scarsità di cibo o riprodursi di più nelle stesse condizioni[14].
Come si è
detto, Alfred Russel Wallace era arrivato indipendentemente a riconoscere e
descrivere questo processo, ma possiamo chiederci qual è la differenza tra i
due naturalisti nel modo di intenderlo e perché oggi se ne parla quasi
esclusivamente come scoperta darwiniana?
Per Wallace la
selezione naturale è un meccanismo che assicura la sopravvivenza delle specie e
interviene nella loro moltiplicazione. Per Darwin è la chiave di volta per fondare
la nuova biologia, eliminando l’essenzialismo, la teleologia e ogni ricorso
alla metafisica ancora presente nelle scienze della natura quale eredità del
pensiero cristiano: la selezione naturale è l’architrave che regge l’edificio
di un pensiero meccanicistico che spiega tutta la realtà di natura senza
ricorrere a un Dio creatore. Darwin intendeva sostituire ogni ricorso al divino
e al pensiero religioso con la scienza secolare[15].
Le ragioni di questo programma sono state individuate da Mayr e altri nello
status delle scienze del XIX secolo.
Come al tempo
di Galileo Galilei, le scienze si studiavano tutte presso le facoltà mediche
universitarie e, fra le discipline a indirizzo teorico-sperimentale, la fisica
era considerata la regina per il rigore dei procedimenti che avevano escluso
ogni ricorso alla metafisica e a concezioni sviluppate in ambito religioso. Darwin
intende conferire pari dignità alle scienze della vita, eliminando il riferimento
alla creazione e a un fine del creato per spiegare l’esistenza degli organismi
viventi e i fenomeni che li riguardano.
A questo
proposito Mayr scrive: “Non vi è stato nulla di simile nella letteratura
filosofica dai Presocratici a Descartes, Leibniz, Hume o Kant. Ha sostituito la
teleologia in natura con una spiegazione essenzialmente meccanica”[16].
È difficile trovare fra i saggi scientifici un libro che possa aver avuto
un impatto sul pensiero collettivo paragonabile all’Origine (1859), e una
nozione scientifica che si sia così capillarmente diffusa come quella di
selezione naturale.
Per Darwin e i
suoi seguaci, la selezione naturale si articola in due fasi: 1)
produzione di variazioni; 2) scelta tra le varianti mediante selezione ed
eliminazione.
Ma la selezione
naturale darwiniana non si limita a questo meccanismo in due tempi, e
presuppone vari processi, quali quelli descritti dalle seguenti tesi:
1) la teoria dell’esistenza di un surplus riproduttivo
(superfecondità);
2) la teoria dell’ereditabilità delle differenze
individuali;
3) la discrezione dei determinanti di eredità.
Questi ed
altri fenomeni biologici erano implicitamente parte del modello di selezione
accuratamente descritto da Darwin.
Quali furono
le reazioni del mondo scientifico e culturale a questa teoria?
Per rispondere
a questo interrogativo, attingo alla copiosa documentazione storica raccolta da
Mayr che, nel 2004, smentisce la tesi di alcuni sociologi contemporanei,
secondo cui la selezione naturale darwiniana interpreta lo spirito del tempo,
lo Zeitgeist della Gran Bretagna di inizio XIX secolo, con la visione
del mondo originata dalla rivoluzione industriale e il pensiero di Adam Smith.
Se così fosse –
osserva Mayr – la teoria della selezione naturale sarebbe stata recepita da
tutti, invece – e così risponde alla domanda posta più sopra – al contrario
dell’accoglimento entusiastico della teoria del progenitore comune, quella
della selezione naturale incontra un rifiuto pressoché universale[17].
Nel 1860 tra i
naturalisti solo Wallace, Bates, Hooker e Fritz Muller sembrarono abbracciare
il selezionismo mentre tutti gli altri, Lyell in testa, lo rigettarono. Anche
il fedele Huxley, il “cane da guardia” delle idee di Darwin che in pubblico
difende la selezione, in privato esprime dubbi e sembra non credere affatto al
ruolo di questo meccanismo, secondo Poulton (1896) e Kotter (1985)[18].
Prima del 1900
nessun biologo sperimentale in Inghilterra o in qualsiasi altra parte del mondo
ha adottato la teoria[19].
È curioso
abbastanza rilevare che lo stesso Darwin non fu un selezionista integrale, in
quanto continuò a credere nell’importanza degli effetti dell’uso e del disuso
di un organo o di una funzione, e nella possibilità di influenze dirette dell’ambiente
sugli organismi.
Il rifiuto di
una “dottrina della selezione naturale” era drastico in coloro che erano stati allevati
e istruiti secondo la concezione ideologica della teologia naturale.
Queste persone trovavano inammissibile che, non solo si escludeva Dio dal
mondo, ma supponendo che tutta la realtà animale e vegetale fosse il prodotto
di un automatismo intrinseco, si cancellava col fine divino dell’Universo il
senso umano della vita. Non è cosa da poco, come si comprende leggendo Sedgwick
e von Baer[20],
che articolavano le loro argomentazioni in modo dettagliato, coerente e
persuasivo.
7. Considerazioni conclusive. Da quanto esposto, credo che risulti evidente l’importanza
di distinguere le cinque teorie di Darwin, non solo in termini scientifici, ma
anche in funzione di una riflessione filosofica, culturale o di pura logica del
discorso.
Se l’evoluzione
in quanto tale e l’esistenza di progenitori comuni non hanno incontrato
significative obiezioni di esperienza, di ragione o di principio, le altre tre,
e specialmente la teoria della selezione naturale, hanno sollevato ogni sorta
di dubbio, fino al drastico rifiuto dell’idea che tutto il mondo naturale fosse
il prodotto dell’affermazione di individui, popolazioni e specie più adatte.
Con la sintesi
evoluzionistica si è avuta una generale accettazione nel mondo scientifico
della selezione naturale, ma il dibattito è continuato fra gli evoluzionisti
sulla portata del suo impiego. Nel Novecento, infatti, si è avuta quasi un’identificazione
tra evoluzione e selezione. Già nel 1979 Gould e Lewontin si
posero il problema dei limiti nell’adozione di un paradigma “adattamentista”
assoluto, ossia se fosse corretto studiare i caratteri degli organismi solo in
funzione del loro valore di adattamento[21].
Il modo in cui
il paradigma evoluzionista selezionista è perfettamente integrato nella
genetica contemporanea, costituendo il presupposto teorico della maggior parte
delle prassi, è sotto gli occhi di tutti, così come è evidente anche a un
profano l’utilità e l’efficacia della sua ratio. È comprensibile che oggi
la maggioranza dei biologi ricercatori non particolarmente interessati ad
argomenti di filosofia della scienza considerino, in generale, le tesi
evoluzioniste come teoremi e corollari che non hanno più bisogno di
dimostrazione e semplicemente si applicano nel lavoro quotidiano. Tanto più che
anche fra gli studiosi di storia e filosofia della scienza prevalgono in numero
coloro che considerano la “questione evoluzionista” un problema definitivamente
consegnato al passato, e sembrano essere interessati solo alla giusta attribuzione
dei meriti delle scoperte darwiniane.
In proposito,
Ian Hesketh ha recentemente attratto l’attenzione sul periodo trascorso da
Darwin in Australia. A dispetto del ruolo a lungo reso mitico delle
osservazioni alle Isole Galapagos – osserva Hesket – oggi è emerso che i
rilievi e le connessioni che Darwin ebbe modo di fare sugli animali di regioni
quali New South Wales, Tasmania e King George Sound in terra oceanica furono
non meno importanti. Alcuni autori, in prevalenza australiani, conservando una
visione romantica ed eroica della ricerca, suggeriscono che la “rivelazione
evoluzionista” Darwin l’abbia ricevuta alle Blue Mountains e non alle Galapagos[22].
Non si può
negare che Darwin abbia realizzato il sogno di ogni bambino attratto dalla
conoscenza del mondo animale: attraverso viaggi avventurosi alla ricerca del
meraviglioso e del nuovo nelle innumerevoli specie sconosciute, scoprire il
segreto delle origini di ogni essere vivente. Agli occhi di noi adulti, il
padre dell’evoluzionismo non ha semplicemente compreso ciò che ha visto, ma ha
creato degli strumenti concettuali di interpretazione di alcuni fatti della
realtà biologica: ciascuno di questi strumenti, come ogni realizzazione umana, presenta
vantaggi e svantaggi, limiti e difetti, che possono essere realmente analizzati
e valutati solo conoscendo e distinguendo ciascuno strumento o teoria da tutti
gli altri.
Concludendo questo
scritto, che si spera possa essere utile a tutti i non esperti di questa
materia per discutere delle idee di Darwin con maggiore cognizione di causa,
desidero rivolgere un pensiero grato alla memoria di Ernst Mayr, che ci ha insegnato
come la scienza muoia nella difesa preconcetta delle idee e viva nella purezza e
semplicità del suo paradigma essenziale: osservare per conoscere, ragionare per
comprendere.
L’autrice della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli
scritti di argomento connesso che appaiono
nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella
pagina “CERCA”).
Diane Richmond
BM&L-08 ottobre
2022
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Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484,
come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, p. IX (Preface),
Cambridge University Press, Cambridge 2004.
[2] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., p. 101.
[3] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., idem.
[4] Charles Darwin in Charles Darwin’s Natural Selection (R. C.
Stauffer ed.), p. 248, Cambridge University Press, Cambridge 1975 [traduzione dell’autrice].
[5] Il motto in Inghilterra era
stato trasmesso al singolare, come si vedrà più avanti, e dunque con l’accusativo
saltum (salto), mentre in origine era saltus, accusativo plurale
di quarta declinazione: salti.
[6] Francis Darwin, The Life and Letters of Charles Darwin, Including
an Autobiographical Chapter, 2 vols., 2, p. 27, Appleton, New York 1887.
[7] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., pp. 103-104.
[8] Cfr. Ernst Mayr, op. cit., p. 104.
[9] Charles Darwin, On the Origin of Species by the Means of Natural
Selection or the Preservation of the Favored Races in the Struggle for Life,
p. 471, [traduzione dell’autrice] (Facsimile of The First Edition, by John
Murray, London 1859), Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts (USA),
1964.
[10] Cfr. Ernst Mayr, op. cit., p. 105.
[11] Ernst Mayr, op. cit., p. 106 [traduzione
dell’autrice].
[12] Ernst Mayr, Darwin’s principle of divergence. Journal of the
History of Biology 25: 343-359, 1992.
[13] Cfr. Eldredge N. & Gould S. J., Punctuated equilibria: an
alternative to phyletic gradualism. In Models in Paleobiology (Schopf
ed.), pp. 82-115, Freeman, San Francisco 1972.
[14] La mancata conoscenza da parte
di Darwin delle nuove acquisizioni nel campo della genetica ha ritardato di
molto la nascita dello studio molecolare dell’ereditarietà secondo i principi evoluzionistici.
Il nostro presidente cita sempre questo fatto storico: l’abate Gregorio Mendel,
dopo aver scoperto le leggi dell’ereditarietà che oggi conosciamo come “leggi
di Mendel” scrisse un saggio in cui raccolse i risultati dei suoi esperimenti
ed espose le regole che ne aveva ricavato; poi inviò copie di questo saggio ai più
eminenti naturalisti del tempo, incluso Darwin. Dopo la morte di Charles Darwin,
su uno scaffale della biblioteca del suo studio è stata trovata una copia
intonsa, con le pagine ripiegate non ancora tagliate, come uscivano all’epoca i
libri dalle stamperie, lasciando allo sfogliacarte del lettore il compito di
separare le pagine. Darwin non aveva mai letto il libro di Mendel. Si disse che
ciò era accaduto perché il saggio era scritto in tedesco.
[15] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., pp. 84,
85, 86.
[16] Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., p. 109.
[17] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., p. 110.
[18] Cfr. E. B. Poulton, Charles Darwin and the Theory of Natural
Selection. Cassell, London 1896; Kotter M. J., Charles Darwin and Alfred Russel
Wallace. Two decades of debate over natural selection. In The Darwinian
Heritage, D. Kohn (ed.), pp. 367-432. Princeton University Press, Princeton
1985.
[19] Weismann, osserva Mayr, era
fondamentalmente un naturalista.
[20] Cfr. Ernst Mayr, What Makes Biology Unique, op. cit., pp. 110-111.
[21] Gould S. J. & Lewontin R. C., The spandrels of San Marco and the
Panglossian paradigm: a critique of the adaptationist programme. Proceedings
of the Royal Society of London, Series B, 205: 581-589, 1979.
[22] Hesket Ian, Narrative of Charles Darwin Down Under. Studies in
History and Philosophy of Science 88: 301-311, 2021.